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lunedì 24 aprile 2017

Eyes Wide Shot - Back From Hell

#PER CHI AMA: Alternative Rock, Lostprophets, Papa Roach
Eyes Wide Shot, ovvero come una band francese (proveniente dalla regione della Lorena) riesce ad attingere dal grande maestro del cinema Kubrick. Dietro questo nome troviamo quattro musicisti che si sono incontrati nel 2012 e l'anno successivo hanno dato alla luce il loro primo EP che gli ha permesso di essere notati dal produttore dei Falling In Reverse. Capirete quindi come questo 'Back From Hell', vero debutto della band, possa avere una produzione da non sottovalutare, essendo stato registrato a Los Angeles e poi seguito dall'agenzia francese Dooweet Agency. Iniziando dal packaging, questo è un jewel case dalla grafica accattivante, un tripudio di schizzi di colore in una stanza, che vede il frontman Florent accasciato mentre rigurgita un fiume di liquido multicolore. Le quattro facciate dell'artwork mostrano gli altri elementi della band ricoperti a loro volta di colore, una trovata interessante che non permette di capire cosa si ascolterà in seguito. Le tracce inserite sono dieci per un totale di trentasette minuti e si articolano tra alternative rock/post-hardcore/emo che ci riportano alla mente band come i Lostprophets, Hoobastank e Papa Roach. Come detto, l'investimento è elevato e lo si capisce subito da "Waiting in Vain", prima traccia dell'album. I suoni sono perfettamente in linea con il genere, dal taglio moderno e accattivante, cosi come la composizione che rispecchia molto (pure troppo) la produzione delle band che hanno aperto i cancelli a questo brand. Le ritmiche sono incalzanti, precise e veloci, la grancassa buca il mix come un missile terra-aria mentre i riff di chitarra si avvicendano con stop&go a profusione e utilizzo del killswitch. Una nota di merito al cantante che si destreggia bene sfruttando la sua timbrica squillante e aggiungendo passaggi screamo che aumentano l'impatto sonoro del brano. "My Redemption" segue la stessa strada, con innesti elettronici sia ritmici che melodici che svecchiano il brano, caratterizzato poi da molteplici intrecci vocali, cambi di ritmo e giri armonici che renderanno felici anche quei metallari più ligi alla tradizione. La seconda metà della song cresce e porta l'ascoltatore verso la conclusione con un certo senso di soddisfazione. La title track inizia in sordina con la voce che si libera su una breve intro di drum machine per poi esplodere come di consueto, ma in chiave più rilassata, come fosse una sorta di ballata post moderna simil 40 Seconds to Mars. Un buon album quindi: i nostri amici francesi hanno saputo prendere il meglio del genere ed interpretarlo con perizia e impegno facendosi apprezzare per gli innesti elettronici e le doti dei singoli musicisti che di sicuro non potranno essere accusati di essersi rilassati sugli allori di una produzione ad alto budget. (Michele Montanari)

giovedì 16 febbraio 2017

Phoenix Mourning - When Excuses Become Antiques


BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Metalcore/Emo, Trivium
C'è stato un periodo, a metà anni duemila, in cui ogni giorno la mia casa era invasa dal suono metalcore di una qualche band statunitense ed è ancora la Metal Blade, che oramai era diventata specialista in questo genere, a deliziare le mie orecchie con l'ennesima new sensation dagli USA. Chi mi conosce e si aspetta l’ennesima stroncatura in quest’ambito, dovrà ricredersi perché a me i Phoenix Mourning non dispiacciono. Non inventano nulla di nuovo per carità, però ho come la sensazione che ciò che suonano sia fatto col cuore. La band a stelle e strisce proveniente dalla Florida, prodotta da Tom Morris (Iced Earth, Obituary), ci spara 13 tracce di metalcore moderno che sconfina nell’emo, fatto di riff metal su quali s’innestano graffianti voci death e pop (si avete letto bene) clean vocals, accompagnati da fughe in territori hardcore e da ruffiane melodie emo. Il limite di questo genere è che forse dopo pochi ascolti si esaurisce il desiderio di rimettere il cd nello stereo o che molte volte non si riesce ad arrivare alla fine del disco perché le canzoni finiscono per assomigliarsi un po’ tutte. Ad ogni modo, per chi ama questo genere di sonorità, l’ascolto è come minimo consigliato, tanto per avere qualcosa di nuovo da fischiettare sotto la doccia. (Francesco Scarci)

(Metal Blade - 2006)
Voto: 65

https://www.facebook.com/PhoenixMourningFL/

martedì 6 settembre 2016

I-Def-I - In the Light of a New Day

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Emocore, Breed 77
Dopo il Mcd 'Bloodlust Casualty' del 2005, ritornano gli inglesi I-Def-I con il full length di debutto e un risultato che definirei soddisfacente. Dopo un anno di lavoro, partecipazioni a compilation, apparizioni a festival, e su diversi magazine internazionali, la band di Manchester centra l’obiettivo al primo colpo, con un album vario che potrà piacere ad una vasta schiera di heavy metal fans: dai seguaci del movimento metalcore agli amanti del thrash, passando attraverso gli ascoltatori più incalliti dell’emocore, ma più in generale a chiunque mostri una mentalità aperta. Il quartetto inglese scalda gli animi con 15 songs davvero buone (ma forse un po' troppe) che si barcamenano all’interno di sonorità alternative, premendo saltuariamente il piede sull’acceleratore e sfociando raramente, in territori swedish death o in altri momenti, in territori più metalcore. I ragazzi sono bravi a mixare riffs di chitarra, talvolta pesanti, a melodici break. Questo è metal moderno, anche se, in taluni casi, il rifferama può risultare preso in prestito dai Pantera (come si evince nei primi pezzi), mentre il modo di cantare di Chris Maher, può ricordare un ibrido tra il Mike Patton ai tempi dei Faith No More e il vocalist dei Linkin’ Park, per l’uso un po’ rappato della sua voce. La traccia “Tunnel Rat” ospita addirittura un assolo del buon vecchio Slash dei Guns’n Roses, un po’ arrugginito ma che si conferma essere sempre un musicista di gran classe. La proposta della band albionica è decisamente attuale, i ragazzi mostrano un grande potenziale, ahimè poi rimasto tale, visto lo scioglimento nell'anno successivo. Meteore! (Francesco Scarci)

martedì 30 agosto 2016

Vert - Accepting Denial

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Emocore, Lost Prophets, Incubus
Dall’area di Wolverhampton (UK), nel 2007 saltò fuori quella che sembrava la new sensation del momento, i Vert. Francamente mi trovo di fronte ad una delle tante band che popolavano il mercato discografico in quel periodo, con il conseguente rischio di saturarlo, a causa della loro proposta musicale non del tutto originale. Il quartetto inglese, accostato più volte dai magazine ad Incubus e Lost Prophets, propina un sound energico e robusto fatto di chitarre non troppo pesanti, ma abbastanza veloci, cariche di una certa attitudine punk, che fanno il bello e il cattivo tempo, lungo le 10 tracce di questo 'Accepting Denial', primo e unico full length per la band britannica (nel 2009 lo scioglimento inevitabile). La voce di Steve Braund oscilla tra momenti malinconici ad urla cariche di rabbia. La musica dei nostri, mai troppo cattiva, anzi piuttosto ruffiana, paga dazio, in diversi pezzi, alle band succitate, come pure in alcuni frangenti sono udibili reminiscenze metalcore. Qui trovate dell’easy music che avrà fatto sicuramente la gioia degli amanti di sonorità nu metal/rock. Egregiamente prodotti ai MCC Studios da Andy Giblin (Slipknot, I-Def-I, Kill 2 This), i Vert non fanno altro che svolgere il loro compitino raggiungendo una stringatissima sufficienza, mixando sonorità catchy a vocals da MTV. Il disco non mi ha mai convinto appieno, però non è neppure da stroncare; mi è rimasta solo la curiosità di sapere dove i nostri potevano andare a parare in una successiva produzione. (Francesco Scarci)

mercoledì 2 dicembre 2015

New Adventures in Lo-Fi – So Far

#PER CHI AMA: Indie Rock, Built to Spill
Finalmente, dopo un paio di EP di assoluto spessore, arriva anche l’esordio sulla lunga distanza per i torinesi New Adventures in Lo-Fi, grazie ad una coproduzione che ha visto impegnate ben tre etichette: Stop Records, Waves for the Masses e Cheap Talks. Il pezzo d’apertura, “Expectations”, una ballad delicata ma inquieta un po’ Smashing Pumkins un po’ primi Motorpsycho, è uno dei migliori pezzi che mi sia capitato di ascoltare quest’anno, e per quanto mi riguarda i NAILF hanno già vinto. E il resto del programma non delude, mantenendosi sempre su quel confine tra rabbia e malinconia che urla college rock in ogni nota, e cosí ci si trova a trovare qua e là echi di Built to Spill, Modest Mouse, ma anche R.E.M. (a cui il nome pare proprio un aperto omaggio), oltre alla cover di “Shoe-in” di Geoff Farina che è di per sé già un manifesto programmatico. I tre del resto, non avevano mai fatto segreto delle loro influenze, basta ascoltare i loro EP o 'All Mixed-Up', raccolta di cover e rarità disponibile in download gratuito, come tutto il catalogo, sulla loro pagina di bandcamp. Quello che conta, peró, non è tanto questa o quell’influenza, ma la qualità delle canzoni, sempre molto alta, grazie a un suono di assoluto spessore (e che dimostra una volta di piú che le chitarre le sappiamo registrare bene anche qui da noi) e, non da ultima, una pronuncia inglese totalmente credibile. Tra i vari brani, quasi tutti mediamente piú “rumorosi” dell’opener, meritano una citazione almeno, la lunga e epica “Klondike”, con il suo muro di distorsioni, e i saliscendi emozionali delle altre due ballate “Nobody’s Rest” e “WG's New Year's Resolutions, Circa 1942”. Un disco di ottime canzoni, che si staglia sullo sfondo della scena indie italiana alzandone, di fatto, il livello. (Mauro Catena)

(Stop Records - 2015)
Voto: 75

giovedì 11 dicembre 2014

Polaroids - I Still Have Dreams/In My Past Life


#PER CHI AMA: Hardcore, Ska Punk, Emo
Basta ascoltare "Fort Knight", 1’:39’’ di furioso hardcore punk melodico, per capire da dove arriva il nome della band: quelle dei Polaroids, infatti, sono istantanee di vita quotidiana, che riescono a catturare sguardi, espressioni, colori ed emozioni in modo estremamente diretto e sincero. Il loro primo album 'I Still Have Dreams' si compone di 10 brani veloci, potenti ed emozionanti. Lo stile oscilla di continuo tra l’hardcore e lo skate punk melodico, che spesso vanno a braccetto nei pezzi più “lunghi” (solo 3 su dieci superano i tre minuti, e altri 3 non arrivano a completare il secondo giro di lancette), sposando vocals strozzate in stile quasi screamo ad altre invece più pulite e ariose (come nell’ottima "Red Herring"). Quando poi schiacciano forte sul pedale dell’intensità emotiva, complici testi densi e tormentati, riescono a cambiare marcia e allora è davvero difficile rimanere indifferenti di fronte a "Soul Mates", la sofferta "Immigrant Song pt.II", "Blue Period" o "Rearview". C’è anche spazio per la splendida strumentale "Somnia", che chiude come meglio non si potrebbe un disco intenso. L’Ep 'In My Past Life', uscito all’inizio del 2014, non sposta la questione e regala un’altra decina di minuti (per 4 tracce) di hardcore e struggimenti post-adolescenziali da cameretta. Questi ragazzi del New Jersey suonano con una passione che traspare da ogni piccolo particolare, a partire dall’artwork dei loro CD-r, realizzati come se fossero delle vere e proprie fotografie Polaroid e riccamente corredati di testi e informazioni, il tutto in perfetto stile DIY. La cura del dettaglio è poi evidente anche nella loro musica, registrata benissimo, e nella varietà della strumentazione usata, che arricchisce il suono in densità e profondità, un suono che si stratifica sovrapponendo chitarre elettriche e acustiche, percussioni, pianoforti, perfino un contrabbasso. Impossibile non guardare benevolmente a realtà come queste, dove l’amore per la musica è talmente evidente da risultare commovente. Impossibile non volergli bene. (Mauro Catena)

(Self - 2013/2014)
Voto: 70

domenica 17 marzo 2013

Self-Evident – We Built a Fortress on Short Notice

#PER CHI AMA: Post Punk, Math Rock, Emocore
Dunque, avete presente come è cominciata la storia di Javier Zanetti all’Inter? Moratti voleva comprare Sebastian Rambert, promettente centravanti argentino dell’Independiente e tornò a casa con il giocatore voluto più un altro “a corredo”, un terzino sconosciuto che si pensava fosse stato inserito nel pacchetto dagli scaltri procuratori. Poi Rambert non lasciò pressoché nessuna traccia, mentre la carriera di Zanetti in nerazzurro sta assumendo sempre più i contorni del mito. Questo parallelismo serve per spiegare l’avventura nel mio stereo di questo dischetto dei Self-Evident, trovato nel pacchetto con cui mi è stato recapitato il lavoro di un altro gruppo, compagno di etichetta, che era il mio reale obiettivo. Non augurando ai Buildings (di cui parlerò diffusamente in separata sede) di fare la fine di Rambert, mi trovo a constatare come i Self-Evident, giunti con questo al loro sesto lavoro (!), abbiano preso possesso del mio lettore cd come Zanetti della fascia destra del prato di San Siro. Quello del trio di Minneapolis è un rock molto peculiare, che coniuga bene l’impronta di stampo math e post-hardcore con una spiccata sensibilità e capacità di scrivere grandi canzoni. Quello che appare subito molto evidente è la loro straordinaria perizia tecnica, sempre però tenuta dovutamente a bada, sempre funzionale alla canzone. Dopo un inizio vigoroso, in cui si mette in mostra la compattezza della sezione ritmica e il modo di cantare “urlato ma controllato”, che ricorda un po’ i Fugazi o i Cursive, la musica dei tre si dipana in maniera più elaborata e meno fisica, ricordando in più di un’occasione i mai troppo lodati Firehose dell’immenso Mike Watt, con il basso a fare spesso la parte del leone, delineando riff e linee melodiche, mentre la chitarra fa da contrappunto e sostegno armonico, come si usa nel Jazz, e la batteria sostiene, rallenta e improvvisamente accelera, come fare rafting in Colorado. I tre sono bravissimi nel trattenere la tensione emotiva, controllandone le oscillazioni e i crescendo in pezzi che raramente superano i quattro minuti. In questo senso, canzoni come "Our Condition", "Half Bycicle", "Bartertown" sono autentici gioielli di costruzione ed equilibrio tra quiete e nervosismo. Menzione d’obbligo per i testi, densi e profondi, e il modo sofferto in cui vengono vissuti e cantati nell’arco di questi dieci pezzi per soli 37 minuti, un concentrato di tali e tanti spunti musicali e non, una macchina perfetta perché non sembra una macchina, ma una cosa viva e pulsante, che trova la sua massima espressione in una canzone capolavoro come "Cloudless". Tanto di cappello, e adesso mi metto alla caccia dell’intera discografia. (Mauro Catena)